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Haramaki Sensei

Aggiornamento: 11 nov 2023


E’ così che si è presentato a noi il Maestro Koichi Haramaki con una semplicità disarmante, una curiosità mista ad umiltà, e sopratutto una volontà di migliorarsi sempre, che caratterizzano da sempre il Judo giapponese e che lo rendono il migliore del mondo.


Nato e cresciuto ad Osaka, conclude la sua formazione scolastica nel Judo laureandosi all’Università di Tsukuba, nella prefettura di Ibaraki, a nord-est di Tokyo.

L’università di Tsukuba è famosa non solo per essere da sempre una tra le più forti università del Giappone, ma anche perché ne fu rettore il Prof. Kano per svariati anni. Molti laureati proseguono poi la carriera di insegnanti per tutto il Giappone, ricoprendo ruoli in moltissime scuole e università del paese.

Oltre a ciò, la “Tsukuba Daigaku” da sempre applica una politica di apertura nei confronti dei judoisti di tutto il mondo, anche per questo il maestro Haramaki ha da sempre un’ottica internazionale di scambio e di crescita con le culture di tutto il mondo: non è facile trovare un insegnante giapponese che parli così bene l’inglese.

Da sempre gestisce, coordina e conduce il dojo “Kijukan” di Wakayama, una città marittima a sud di Osaka e dell’aeroporto del Kansai, “capoluogo” di una prefettura il cui territorio si pone al centro della penisola del Kansai.


Si collega con noi anche Yasuko Haramaki, figlia del maestro Koichi.

Classe ’94, laureata all’Università di Tsukuba, forte atleta, si dedica anche lei all’insegnamento.

Yasuko è appena rientrata da un’esperienza di lavoro in Germania, dove ha seguito ed allenato le atlete del forte club Judo TSV Munchen-Grosshadern (club dove ha lavorato negli ultimi tempi anche Winston Gordon, club delle sorelle Stoll e di molti atleti della selezione nazionale tedesca) per quest’ultimo quadriennio olimpico.


Dopo una breve fase di presentazioni, si entra nel vivo del meeting, con la calda e delicata questione del forte calo della popolazione dei praticanti di Judo in Giappone, tematica nota da anni e fonte di preoccupazione per tutti.

Il Giappone dopo la sconfitta della guerra, doveva riscattarsi, c’era la priorità della ripartenza, “rialzarsi” e lavorare duramente in tutti i campi per riprendere quella credibilità che era andata persa.

Questo ha portato ad un approccio ad un judo prevalentemente incentrato al successo sportivo, alle medaglie nelle Olimpiadi del ‘64, che da lì a poco si sarebbero svolte a Tokyo. Il Giappone doveva vincere e non solo come medaglie ma come immagine.

Il Judo fu introdotto nelle scuole, furono organizzati i campionati studenteschi e fu fatto dell’agonismo lo scopo principale.

La mentalità della politica dirigenziale scolastica era quella di arrivare a medaglia nei tornei, l’approccio era molto selettivo e premiava i più forti.

Questo sorta di fanatismo però ha portato molti studenti ad abbandonare il Judo una volta finite le scuole, anche in numeri alti: il maestro dice 8 su 10.


Ci racconta quindi come la federazione giapponese stia attivando dei sistemi di promozione del Judo per quella che è la ripresa post-coronavirus; tramite video, cartelloni e pubblicità, sta promuovendo il Judo come sistema per diventare più forti, più muscolosi, più belli, più allenati.

Ci chiede come si sta muovendo per questo obiettivo la nostra federazione nei confronti dei nostri dojo: poco o nulla, quel poco focalizzato solo nei giochi olimpici o per gli atleti di alto livello.

Il maestro Haramaki ci racconta che un suo senpai di Tsukuba, il maestro Masashi Kamemoto, preside di una scuola superiore di Osaka ed insegnante occasionale al Kodokan di Osaka, gli fece vedere un video di un dojo italiano che, attraverso il Judo, svolge attività sociale per togliere i ragazzini dalla strada (il documentario era quello del maestro Maddaloni e dell’attività del suo Star Judo Club di Scampia, a Napoli) e ci chiede se c’è una correlazione tra quel video e l’attività promozionale della federazione italiana. Rispondiamo che le due cose non sono correlate, sebbene lo Star Judo Club sia tra i club più forti del nostro paese.

Ci spiega come la sua curiosità nasca dal fatto che, in apparenza, molti insegnanti in Italia conoscano determinati aspetti del Judo nella sua completezza e nella sua proposta globale educativa: in Giappone, continua, solo una piccola fetta degli insegnanti promuove e porta avanti un metodo che metta al primo posto quei principi morali che rendono concretamente il Judo un paradigma sul quale impostare l’educazione dell’essere umano.

Cerchiamo di chiarirgli che attualmente in Italia quell’aspetto del Judo viene spesso sfruttato ed utilizzato a scopi promozionali per “vendere un prodotto”, ma purtroppo poi, nel lavoro concreto svolto all’interno delle palestre, solo pochi dojo applicano un sistema didattico e di proposta della disciplina, che ponga al primo posto nella scala didattica i principi morali ed educativi.


Koichi ci chiede quanti insegnanti svolgono l’attività di maestro di Judo come lavoro. Insegnare Judo non è considerato un vero lavoro in Italia e quindi quasi tutti i maestri di Judo in Italia hanno un’altra professione tranne nei casi in cui siano gestori di una palestra polifunzionale per cui insieme al judo abbiano molte altre attività.

Koichi ci racconta che una sua amica insegnante di Judo in Francia gli ha raccontato che in Francia ci sono le palestre piene nelle classi dei bambini, ma poi vi è un grande abbandono al raggiungimento dell’età della pubertà e dell’adolescenza.

Ci chiede se anche in Italia è così, e gli diciamo che si, è così, inoltre noi non abbiamo il sistema di Judo nelle scuole superiori e nelle università come da loro.


Gli chiediamo quindi se in Giappone l’insegnante di Judo è considerato una professione completa ed un lavoro.

Koichi risponde che solo pochissimi insegnanti sono professori di Judo a tempo pieno, molti altri insegnanti hanno un altro lavoro, per lo più insegnanti di scuola, poliziotti, terapisti (Judo Therapist - figura professionale ministeriale giapponese).


Proseguiamo quindi chiedendogli quale autorità dà loro la licenza di insegnante di Judo.

Ci risponde che inizialmente non vi era una licenza quindi chiunque poteva insegnare Judo ma di recente, a seguito di molti incidenti, il sistema è cambiato e solo l’All Japan Judo Federation può emettere la licenza di insegnante di Judo, oltre ad una licenza per tutti gli insegnanti sportivi data dal comitato olimpico giapponese.

Koichi pensa che questo sistema sia problematico, perché spinge più ad ottenere la licenza che a formarsi in modo funzionale all’insegnamento del Judo, circa la didattica, i metodi ed i principi.

Ci chiede in Italia come funziona, e gli rispondiamo che più o meno anche qua vi è questo tipo di politica: l’interesse prevalente sta nell’ottenere i “timbri” per le licenze dei tecnici e che la formazione istituzionale è carente di contenuti pertanto rimane indispensabile la formazione personale.



In Giappone, cosa è rimasto del “messaggio” del sig. Kano, nel Judo giapponese di oggi?

Che ridere, la domanda viene girata a noi... Ci chiede quale pensiamo che sia il messaggio del sig. Kano!

Dal lato tecnico notiamo omologazione tra “randori” e “shiai”; il randori non è più un esercizio finalizzato a concretizzare l’efficacia di uno studio tecnico, ma è simulazione di gara anche in palestra.

Randori è il combattimento come esercizio, che sviluppa l’apertura mentale alle opportunità, che lascia spazio al combattimento più puro ed ardente nella ricerca dell’ippon; shiai invece comporta la presenza di un risultato, comporta un concetto di vittoria e sconfitta, che ha le sue più profonde radici nella cultura del budo e nell’obiettivo marziale del combattimento per la vita o la morte.

Il randori e lo shiai hanno una parte fondamentale nello sviluppo del judo e se hanno due definizioni diverse è segno che rappresentano due idee differenti. Oggi invece il ruolo del randori si è perso, tutto è confronto e concetti come maestria e bellezza dei movimenti sono sacrificati all’efficacia. Lo studio tecnico si è sacrificato a favore di una eccellente preparazione fisica e muscolare.

L’opinione del maestro Haramaki è che vi sono vari “step”, all’interno della didattica proposta nel Judo di oggi: quello finale risulta essere sempre e comunque quello dello shiai.

Per spiegarci meglio, ci propone metaforicamente il paragone tra le modalità diverse con cui viene servito un pranzo o una cena: la prima, quella più vicina al Judo di oggi, nella quale posso servire infatti prima l’antipasto, poi il primo, poi il secondo, poi il contorno e poi il dolce, oppure la seconda, nella quale posso servire tutte le portate e mangiarne un po’ da ciascuna per tutto il pasto.

Immediato, nella nostra testa, il paragone tra occidente ed oriente, e pensiamo al Judo contestualizzato in una didattica come il secondo dei due esempi: prendo un po’ dal randori, un po’ dal kata, un po’ dallo studio delle ukemi, un po’ dalla preparazione fisica, un po’ dallo shiai, per formare un judoka completo.

In Italia noi continuiamo a vedere ragazzi che fanno shiai e non randori, c’è forse un problema culturale che non comprendiamo fino in fondo: ci sembra che per i nostri ragazzini vincere sia l'unica cosa che conti, e che i ragazzi “mangino” solo dal piatto del “dolce”.

Haramaki ci racconta che nel suo dojo, precedentemente, i suoi ragazzi volevano imparare nuove tecniche e strategie esclusivamente pensando ad utilizzarle nelle gare, e per vincere le gare, relativamente alla loro efficacia: di recente invece ha cambiato approccio, i ragazzi sperimentano e studiano nuove dinamiche per propositi diversi da quello del vincere una gara, quali lo studio della tecnica, la percezione di un corpo rilassato ed una pratica ottimale.


Cerchiamo di condividere con Yasuko, chiedendole il suo punto di vista, che può essere sia giapponese sia europeo.

Anche in Germania l’impostazione judoistica è finalizzata esclusivamente alla gara ma gli insegnanti occidentali hanno un approccio molto diverso con i bambini rispetto all’approccio giapponese: da noi il metodo di insegnamento, soprattutto con i bambini, pone al primo posto il divertimento e il gioco mentre in Giappone è fondato generalmente sulla corretta esecuzione.

Anche in Italia Yasuko ha avuto la stessa sensazione, ha conosciuto persone che si divertivano facendo judo e stavano bene, indipendentemente dal fatto di vincere in gara.

Il Judo è un “tutto”, non è solo gara, non è solo solo kata, non solo tecnica, non solo randori: va fatto nella sua globalità e studiato in tutti i suoi aspetti a seconda dell’età. Da piccoli prevarrà il gioco, da adolescenti l’agonismo, da adulti altri aspetti...


Haramaki ci stupisce ancora, prende un quadernetto di appunti, una penna e ci chiede come noi utilizziamo nei nostri dojo un’ora di allenamento nella classe di bambini o sopra i 12 anni per esempio.

(Tra di noi pensiamo “vorremmo chiederlo noi a te!”)

Rispondiamo, ciascuno per le proprie esperienze e visioni.

Al Kijukan, per i bambini praticano 1 ora, di cui massimo 10 minuti di randori, il resto giochi, propedeutici alla tecnica: Yasuko sottolinea però la particolarità del dojo di suo padre rispetto agli altri dojo giapponesi.

Nei dojo “normali” giapponesi per bambini, la pratica di solito è caratterizzata da un allenamento di un’ora e mezza con alcuni minuti dedicati a riscaldamento, cadute ed uchi-komi, per poi praticare direttamente un’ora di randori.

La pratica per i bambini è pesante, imposta, non è divertente, c’è un clima serio e di lavoro. Sottolinea Yasuko che tutto è molto importante, però con un clima divertente ed entusiasta, il lavoro con i bambini rende di più, perché i bambini si innamorano alla pratica ed al clima di pratica. Viceversa il clima militare in una determinata fascia d’età può essere poco utile al giorno d’oggi.



Può essere anche per questo che al giorno d’oggi in Giappone ci sono la metà dei tesserati di una volta?

Potrebbe essere una causa, ci rispondono.



E come cadenza settimanale?

Cambia, dipende dall’insegnante e dalla sua disponibilità, può essere 2 o 3 volte a settimana come tutti i giorni, ciò che però è uguale è la modalità, che è sempre la stessa nella maggior parte dei dojo: ukemi, uchi-komi e randori.


Perché lei, Haramaki sensei, ha cambiato il suo approccio all’insegnamento del Judo?

Una delle ragioni è perché il Judo è il mio lavoro, pertanto è inevitabile, premessa la passione, che devo pensare anche alle entrate economiche: ho notato che spingendo per avere atleti più forti e performanti a livello di competizioni mi portava ad avere meno iscrizioni, mentre lavorare in termini di crescita dell’individuo e del suo miglioramento, non finalizzato al risultato di gara, dava più soddisfazione ai praticanti e mi faceva avere più iscritti al Kijukan.

Sono un uomo di famiglia ed amo la mia famiglia, pertanto devo pensare anche ad essa, la scelta è stata condizionata anche da questo!



Hamaraki sensei ci racconta di in una situazione interessante recente.

Di solito, finite le attività nelle scuole medie continuava la pratica nel dojo privato di appartenenza. Gli studenti che decidono di proseguire nel Judo si iscrivono al club della scuola superiore di appartenenza con l’obiettivo di diventare più forti.

Di recente invece ha avuto un gran numero di allievi che hanno scelto di continuare a frequentare il Kijukan oltre al judo club della scuola superiore di appartenenza, oppure di non iscriversi proprio al club della scuola e di continuare a praticare al proprio dojo, una cosa rara ed inusuale che appunto ha stupito il maestro stesso.


Hamaraki sensei ci rivela che in questi periodo molti giapponesi incominciano ad avere dei dubbi che un lavoro così intenso sul judo e sulle competizioni sia l’unico approccio da avere.

E’ da alcuni anni che pratico aikido e ho notato che tutte le volte ci sono stimoli nuovi: nell’aikido non ci sono randori e gara, quindi teoricamente non c’è finalità, eppure di recente la popolazione dell’aikido sta aumentando, mentre sta diminuendo quella del judo.

sono cose per le quali non abbiamo una corretta risposta, ma sono cose che fanno pensare e che si osservano.

Continua dicendoci che spesso in Giappone, quando qualcuno esegue una buona tecnica, talvolta si applaude sorridendo: questo però non accade mai quando qualcuno esegue un’ottima tecnica di rottura della caduta (ukemi).

Haramaki sta provando a cambiare prospettiva, complimentandosi non solo per buone tecniche, ma anche per buone cadute.


Chiediamo se nella pratica judoistica dei bambini e dei giovani in Giappone ci sono tendenzialmente tanti incidenti ?

In Italia si è drasticamente alzato il numero degli incidenti ai legamenti crociati delle ginocchia in ragazzi anche di 14 anni.

Yasuko gli raccontò, dice Hamaraki sensei, che in Germania per esempio quando studiano un “Uchi-Mata”, ne segue sempre la caduta sopra o oltre il compagno, non vi è quindi il controllo del carico sulla gamba di equilibrio: in Giappone invece, per tradizione e metodica, la spiegazione di una tecnica avviene con il controllo del corpo di tori oltre quello di uke, il quale resta in posizione in equilibrio su una gamba una volta eseguito il tiro.

Per questo, probabilmente, gli incidenti alle ginocchia non sono un grosso problema in Giappone: specifica però che hanno piuttosto altri problemi: per esempio gli infortuni alla testa per i maki-komi o i seoi in ginocchio.


Non è che la gara ha portato inevitabilmente ad un rendere grezza e poco maniacale la forma della tecnica? Non è che lavorando di più sulla tecnica pura si possano provenire determinate situazioni?

Di recente, vedendo i campionati delle scuole superiori Giapponesi, rispetto per esempio a quelle italiane, c’è comunque naturalmente la tattica, la strategia, ma nel campionato giapponese si può comunque notare maggiormente la componente tecnica, che viene fuori in modo naturale.

La considerazione di Yasuko è che in Giappone, praticando duramente, a forza di ripetere centinaia di uchi-komi anche da bambini, la tecnica entra nella natura del judoista, nel loro caso anche a discapito della componente emotiva: bambini che piangono, ma con una tecnica perfetta.

Un altro punto importante è che in Giappone il focus sul dettaglio è finalizzato alla forma della tecnica, non al “proiettare” l’avversario: in Europa (Germania) per esempio invece, il fine è proiettare l’avversario nel modo più efficace, il dettaglio è quindi finalizzato a quello, al contrario del Giappone invece, dove il dettaglio è finalizzato al realizzare una tecnica fatta bene, non al proiettare ad ogni costo.

Porta l’esempio del maestro Katanishi e della sua didattica, dicendo come, secondo lei, se tutti proponessero una didattica del dettaglio finalizzato ad un’ottima forma della tecnica, si potrebbe alzare il livello tecnico nelle competizioni.


Haramaki condivide una preoccupazione diversa, inizia ad essere sempre più critico con il sistema didattico giapponese.

L’approccio alla didattica si sta sempre di più avvicinando a quello europeo, finalizzato cioè al risultato piuttosto che alla forma.

E’ vero che comunque in Giappone curano di base la forma, però sempre meno e la direzione che sta prendendo il judo è preoccupante.

Nel regolamento di Judo per i bambini o le persone con disabilità intellettiva, non sono permessi maki-komi o tecniche in ginocchio: questo è un approccio che può essere buono ed ottimo per la didattica e l’educazione al judo dei bambini.


Condividiamo con lui portando l’esempio dei tornei studenteschi di AISE (www.sport-educazione.esy.es), nei quali il regolamento fino alle scuole superiori non assegna l’ippon se la tecnica non è tirata perfettamente con controllo pieno delle propria postura: tecniche in ginocchio o rotolamenti non assegnano punto, questo spinge a ricercare l’ippon con tempismo, energia e controllo.


Arriviamo al momento dei saluti, si è fatta l’ora della cena in Giappone e del pranzo in Italia.


Haramaki Sensei ci ringrazia immensamente per l’opportunità di scambio e di crescita, augurandosi di poterci incontrare di nuovo.


Sempre stupiti per la semplicità di questo maestro, lo ringraziamo e auguriamo a nostra volta di rincontrarlo per condividere esperienze ed opinioni sul judo, grati per aver conosciuto una persona affabile e tesa ad un continuo miglioramento.

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