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Judo e Teatro, con Gianluigi Gherzi.

Utile, non è mai la nostra vita,

non siamo mai noi.

Utile

è il mondo se ricomincia a produrre,

i treni e le macchine

che trasportano al lavoro,

il cibo da supermercato,

le banche il denaro.

Inutili noi, i nostri rapporti non stabili

gli incontri segreti

lo stupore di fronte alla bellezza

i nostri spettacoli, le nostre piazze.

Utile la città degli spostamenti

inutili gli angoli, le panchine, le soste.

Utile il motore che mai si spegne.

Inutili noi dentro le case,

senza più lavoro fuori

né azioni da condividere.

Noi, abbarbicati ai nostri pensieri inutili

ai gesti minimi del contatto e della presenza

alle parole preziose dentro i libri

alle danze dentro i corpi chiusi.

La lezione è arrivata: inutili noi.

Che, oggi più che mai

quello che ci fa vivere

non è utile, ma

superfluo, secondario, rinviabile.

Utile la vostra vita utile.

Non potevo iniziare a scrivere un dialogo tra Shibumi e Gianluigi Gherzi, poeta, scrittore, attore e regista teatrale, senza riportare questa sua poesia (che ci porta ai pensieri dei lockdown) tratta dal libro “A che pagina è la nostra fortuna?” Edizioni Anima Mundi.

Il tema dell’incontro era quello (ardito!) di trovare delle connessioni tra judo e teatro.

Gianluigi è una persona magnetica, capelli bianchi e arruffati, una voce tra il rauco e il metallico che srotola senza pause o dubbio alcuno fiumi di parole e concetti che investono, stordiscono e ubriacano. Poi si ferma, sorride mentre tormenta una sigaretta fine fatta a mano, dopo aver confrontato e inserito in perfetto ordine avvenimenti storici, analisi sociologiche, riassunti filosofici, dopo averci accompagnato a confrontare mondi e idee, tira il fiato dicendo “Aiuto!....ho fatto uno sproloquio!” e giù tutti una risata! Da vero attore è riuscito a far scaricare la tensione….

Il fil rouge è il rapporto tra le arti marziali (sotto il cui ombrello, per semplicità, ci mettiamo tutto un mondo anche in modo improprio) e il teatro.

Gianluigi premette che il teatro per alcuni anni ha subìto una fascinazione per l’esattezza di movimento delle arti marziali, si ricercava un movimento rigoroso, a-personale che entrasse nel training dell’attore perché perdesse i tratti personali e gli aspetti psicologici (Il Terzo Teatro, manifesto di Eugenio Barba del 1976).

Questa ricerca di comportamenti codificati, movimenti assoluti sono da collegare a tutte quelle “forme” (i kata) che altro non sono che esecuzioni in cui si ripulisce l’azione, attraverso la pratica, da interpretazioni e personalizzazioni. E’ la ripresa di un assoluto che ritorna matrice originale della tecnica e lavaggio mentale da tutta una serie di intenzioni e proiezioni.

Procediamo quindi alla seconda domanda: “Che fine hanno fatto le avanguardie oggi?”

Gigi parte inarrestabile...” Le avanguardie hanno semplicemente cessato di esistere; sostanzialmente nascono per superare il modello borghese, convenzionale, accademico, specchio dei buoni sentimenti e per fare ciò si lega ai movimenti sociali alternativi e ai pensieri politici (soprattutto di sinistra) proponendo un superamento del modello stesso. Ma la globalizzazione, che supera di gran lunga il modello borghese proponendo al suo posto quello economico, mette al centro dell’attenzione il totem dei mercati facendo cadere così l’avanguardia stessa in un tranello perché ponendola in un settore di mercato le lega mani e piedi rendendo inefficace ogni suo tentativo eversivo. Né più né meno del settore di biologico ricavato all’interno di un supermercato che utilizza le logiche della grande distribuzione.

Perso quindi il senso dell’azione delle avanguardie, perché i loro segni diventano meno efficaci e i loro colpi non arrivano più al cuore delle persone, nasce il postmoderno, una grande marmellata dove stanno insieme tutti i codici, dove si capisce che tutto è stato detto e non c’è più nulla da inventare. L’unica soluzione appare dunque mescolare gli stili, manipolare i segni facendo ciò che puoi fare cioè quella di usare delle categorie postmoderne che sono la leggerezza e l’ironia.

Per un certo verso questo postmoderno si porta avanti ancora degli strascichi per molti anni fino ad oggi, all’alba di un pianeta sull’orlo del collasso e dell’autodistruzione, infettato dall’ansia e malato di schizofrenia ma che ci porta al vero interrogativo di oggi:

che rapporto c’è tra il teatro e la vita? E parimenti potremmo dire anche tra arti marziali e vita?

Le avanguardie hanno cessato di rivolgersi solo a loro stesse e al loro ombelico e nasce ora un’esigenza e una sensibilità nuova che ci pone di fronte al tema di un ambiente logorato e in scadenza, con un eccesso di produzione e con una mancanza di redistribuzione.

Il tema quindi centrale è la vita reale, la vita minacciata in un pianeta minacciato, la vita fragile per la caduta dei pilastri fondamentali: cultura, diritti e democrazia. La vita attaccata dalla pandemia in un mondo che si sente precario come non mai, spaventato e completamente all’oscuro di come difendersi dalle conseguenze abnormi del proprio scellerato modo di vivere e concepire la vita.

Se un tempo arte e vita potevano essere staccati e l’artista poteva rallegrarsi di costruire mondi paralleli astratti e illusori che si contrapponessero alla vita borghese con la rigidità delle sue regole, con il Covid 19 il cambiamento è stato vertiginoso e velocissimo lasciando spazio alla ricombinazione delle domande esistenziali più profonde:

chi siamo, dove vogliamo andare e come possiamo procedere senza affondare.

Perché arte e judo o teatro e arti marziali non si preoccupano della fine del pianeta? Si può fare judo o teatro pensando che lo scopo possa essere dare ai presenti il recupero veramente di un equilibrio psicofisico, di salute, di plasticità e di agilità?

Sapendo bene che di risposte non ne abbiamo ma possiamo solo costruire un grande laboratorio di domande aperte.

Come dice Amitav Ghosh nel suo libro “La grande cecità”, se l’ambiente è così contaminato e in scadenza, ciò riverbera anche all’interno delle psicologie individuali; partendo dal presupposto della teoria che macrocosmo e microcosmo sono collegati, ciò che accade al mondo accade anche dentro di me.

Posto che questa fascinazione tra teatro e arti marziali non è più presente, è chiaro che entrambe le discipline mirano a costruire, dentro ad universi apparentemente separati (arti marziali ma anche altre arti), una realtà con un dato che li accomuna, la ricerca di una ritualità che dia una maggior leggerezza rispetto alla realtà circostante, che consenta di non perdere il giudizio e la lucidità senza rinchiudersi in paradisi di un finto benessere (pensiamo solo alle enormi quantità di psicofarmaci e droghe in uso attualmente) che si auto alimentano per consentire alle persone di riuscire a galleggiare e a reggere le bordate della vita.

E’ questa una delle possibili cose da fare, costruire insieme (arti rappresentative come il teatro e arti esperienziali come le arti marziali) una ritualità estremamente ricca. Smettere con la ripetizione di un rito morto (la ripetizione di gesti senza un contenuto, quasi tic quotidiani, tipo “come stai? Bene” fatto in modo automatico o un battere le mani perché lo fanno gli altri...) dedicandosi ai riti attivi, ritmo della vita (rito e ritmo hanno la stessa radice indoeuropea) partecipazione emotiva, atto significativo, cognitivo ed esperienziale. (Per esempio se io ogni mattina mi alzo e bevo un bicchiere di acqua e a questo gesto attribuisco un significato particolare, il ripetere nel tempo di questo semplice gesto diventa un rito che mette una parte profonda di me in contatto con una parte più in superficie e ciò mi conferisce un contenuto cognitivo).

Quindi superiamo le logiche solamente di un benessere personale, attraverso i mille modi che ci possono essere per arrivare ad una forma di consapevolezza e apriamoci agli altri cercando di dedicare ad un collettivo questa ricerca di equilibrio e di relativo benessere.

Soluzioni? Per esempio potenziare la forza filosofica delle arti (anche marziali perché no) dimostrando che il rito è vivo, il rito s’incarna e viene in aiuto nella nostra quotidianità, testimoniando una visione del mondo a livello collettivo e un rafforzamento della vita.

Ritorna il concetto espresso da Amitav Ghosh, usciamo dalla grande cecità (che è anche quella di vivere tutto solo individualmente o a piccoli gruppi) e dedichiamoci insieme alla vita reale e ai suoi problemi. Nella vita reale coesistono anche visioni differenti, non dobbiamo vederla tutti nella stessa maniera così come accade tra gli amici, in famiglia o nel lavoro. Anche nel judo del Prof. Kano è tempo di abbandonare ideologie di gruppo o pregiudizi di appartenenza a categorie differenti. Non è più tempo di vedere ciò che ci differenzia ma ciò che ci unisce e allora saliremo insieme sul tatami (materassina del judo) per costruire un grande rito collettivo. Un tatami che non sottolinei più le differenze tra amatori e master, tra amanti di kata e amanti di randori, tra tradizionalisti e sportivi, ma un tatami che celebri con forza il piacere di sentirci tutti assieme judoisti.


A.G.

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