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Educare lo sguardo

Magra, longilinea, un sorriso dolce in un viso spigoloso come per avvertirti: “non mi stuzzicare altrimenti trovi quel che cerchi”.

In un’intervista trovata sulla rete, il giornalista le chiede chi siano stati i suoi insegnanti tecnici e i suoi d.t. in nazionale, Emanuela risponde subito che in quegli anni ha avuto un ottimo rapporto con la dott.ssa Muroni e il prof. Barigelli, il preparatore fisico, che le ha salvato le ginocchia mentre i tecnici e i d.t. le erano sostanzialmente indifferenti…..secondo lei occupavano quei posti immeritatamente.

Eccola Emanuela Pierantozzi, coraggiosa, schietta, diretta quasi in modo imbarazzante, non si nasconde dietro dichiarazioni edulcorate, non applica quel "politically correct" che ormai ci impedisce di fare analisi, di vedere la realtà.

Emanuela è una che punta i piedi a terra e si regge da sola; è determinazione pura, forza di carattere, come in quei combattimenti di judo vinti in giro per il mondo. E’ la prima atleta della nazionale che sentiamo fare analisi pesanti ma vere e che non ha paura di essere smentita.

“L’ambiente della nazionale era pesante, non per le compagne o i compagni, ma per una dirigenza autoreferente che non si dedicava agli atleti ma che era più interessata alla politica e alla gestione del potere più che alla crescita di questi. Se non avessi vinto così tanto, mi sa che mi avrebbero cacciato, ero scomoda.”

Stare tanto tempo lontano da casa rende fragili e spesso i poteri più forti ne approfittano, Emanuela ha coraggiosamente denunciato alcune cose, ma l’ambiente sportivo è omertoso e se gli atleti vogliono gareggiare devono imparare a tacere di fronte a molte ingiustizie oppure a non porsi neppure in una visione critica, a chiudere gli occhi e adattarsi, a essere soldati e non guerrieri. Forse dovremmo fare una riflessione sui nostri dirigenti sportivi, amministrativi e politici.


Alcuni di noi hanno vissuto il ‘68 e l’occupazione scolastica del ‘78 in prima persona. Nel 1989 assistemmo alla caduta del muro di Berlino, alla svolta della Bolognina e nel dicembre al movimento delle Pantere nel mondo universitario. Eppure ancora oggi, si ha la sensazione di non aver migliorato sostanzialmente questo mondo.

Non è bastata la visione cristiana della formazione infantile, non l'ebrezza dell’ideale politico giovanile e neppure l’utopia del Sig. Kano che concentra nel judo le massime internazionaliste che ci vedono in questo mondo per applicare il miglior impiego delle energie insieme agli altri collaborando per un mondo migliore.

Sostanzialmente abbiamo cambiato poco e se vogliamo essere sinceri si ha la sensazione di avere molta meno autonomia intellettuale che negli anni ‘80, quando si percepiva il senso della libertà, legato a quello della responsabilità, e i diritti costituzionali erano dati per scontati.


Ma torniamo a Emanuela, lei è bolognese ed è una regina del judo; un argento e un bronzo alle Olimpiadi, due ori e un bronzo ai Mondiali, due ori, tre argenti e due bronzi agli Europei, un oro ai giochi del Mediterraneo e sei assoluti vinti.


La prima domanda è secca, quasi una rasoiata: “E’ vero che hai contribuito a far sì che i premi in denaro delle donne fossero equiparate a quelle degli uomini?”.

Si, risponde Emanuela, “Nel 1989 vinco l’oro agli Europei ed Alessandra Giungi fa il bronzo, con quel risultato eravamo già P.O. (probabili olimpioniche), ma riceviamo metà premio rispetto ai maschi. Nello stesso anno, ai mondali di Belgrado, sempre io e la Giungi facciamo io oro e lei argento e andiamo assieme dal presidente della Federazione chiedendo pari premi per tutti. La disparità di trattamento è già di per sé un segno di arretratezza culturale, mettiamoci poi che l’Italia ha avuto più risultati in campo femminile che in quello maschile (come la Francia per altro ultimamente) e allora diventa tutto un’operazione commerciale: valgo il doppio ma guadagno la metà”.


Si passa a parlare di judo e arte, vista la doppia vocazione di Emanuela come ex atleta di alto livello e come scultrice (figlia d’arte, tra le sue opere la statua di Pantani sita a Cesenatico). Sono interessanti le sue osservazioni.

“Si, c’è molta similitudine tra arte e il bel judo; c’è l’armonia, un bel gesto che li accomuna ed emoziona. L’ippon è un punteggio qualitativo e non quantitativo come nella lotta, i combattimenti che amo di più sono quelli dove si cerca l’ippon, ma non sempre sono stata in grado di potermelo permettere perché sviluppare la tecnica richiede molto tempo e nella nostra mentalità c’è l’andare verso la soluzione il prima possibile. Forza, velocità e strategia si allenano più facilmente e danno risultati più immediati. Così diventi una macchina da guerra, copri le tue debolezze e hai meno tempo da dedicare alla crescita tecnica. Per inciso, fino a che non toglieranno il punteggio nelle classi dei giovani, non si riuscirà mai a crescere in modo esponenziale. Se un ragazzo deve fare risultato già dai 13 anni, forse la sua crescita tecnica subisce un arresto perché la vittoria diventa l’unico parametro del suo valore, per cui chi nasce dotato è fortunato, chi necessita di più tempo per maturare….addio!”


Le poniamo una domanda sulla cultura judoistica: “Come mai secondo te uno che è appassionato di arte o che ama dipingere, spesso si riferisce ad autori distanti nel tempo, ad esempio Giotto (fine 1200) o il Parmigianino (1500) mentre un atleta se vede Kyuzo Mifune (fine dell’800, soprannominato il Dio del judo) sbadiglia?”

Emanuela risponde senza incertezze “lo sguardo va educato, a meno che si abbia una propria sensibilità; dobbiamo abituare lo spettatore, il judoista, a qualcosa che non sia solo la forza o la potenza, ad apprezzare la bellezza di un movimento.”


Le chiacchiere continuano scambiandoci anche le nostre esperienze e la nostra visione.

Speriamo tutti che la nazionale sia cambiata rispetto a quella che Emanuela ha conosciuto da ragazza: “mi piacerebbe vedere una Federazione che avesse una programmazione, che tenesse di conto degli ex atleti e che aiutasse a trasferire le competenze in modo da entrare nel mondo del lavoro. In Germania chi insegna sport viene fuori da cinque anni di studi e non si improvvisa tecnico solo con un corso di due settimane. Io mi sono dovuta organizzare da sola, ho fatto l’Istituto superiore di Educazione Fisica e poi sono diventata docente del Corso di Studi di Scienze Motorie di Genova e ricercatrice. In Francia questo tipo di percorso è concordato assieme all’atleta per la terza fase della sua carriera (prima fase quella formativa e tecnica, poi la fase dell’età agonistica, poi il post agonismo con introduzione nel mondo del lavoro)”.


L’ultima domanda è sui modelli che ha avuto da giovane.

“Spesso mi riferivo alle colleghe francesi, ma sopra a tutte Ingrid Berghmans, la bellissima belga vincitrice di 11 medaglie ai mondiali, una delle sportive che hanno vinto di più nella storia dello sport”.

Per quale motivo?” chiediamo noi.

”Perchè vinceva con il sorriso!” risponde Emanuela.


Concludiamo con il detto latino “barba non fecit philosophum” (la barba non fa il filosofo) nel senso che se lo sport non ritorna a promuovere i migliori, nella gara come nella costruzione delle società sportive, se lo sport non educa a vincere sé stessi, vuol dire che è solamente uno slogan e non riesce all’interno di sé a realizzare ciò che propone fuori di sé.


Grazie Emanuela, forte e aspra come le fragole con l’aceto.

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