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A presto sul tatami!

Aggiornamento: 7 lug 2023

Il Maestro Hiroshi Katanishi, non ha certo bisogno di presentazioni, parlare con lui dà un grande piacere, per la sua intelligenza acuta, la sua esperienza e visione di vita.

Ciò che siamo passa dall’educazione e dalle esperienze che abbiamo avuto, per noi parlano le scuole che abbiamo fatto, i libri che abbiamo letto, i maestri che abbiamo incontrato. Per questo motivo l’idea di parlare con un grande esperto ci elettrizzava, Shibumi e Katanishi, via internet, noi e il judo pensato, ragionato ed immaginato.

Ci accoglie sorridente, con un pizzetto fatto crescere di recente, dalla splendida baita costruita sulle Alpi Svizzere, il tetto dell’Europa. Le prime battute sono di cortesia, lo ringraziamo di aver accettato di chiacchierare con noi, non è un’intervista formale, alcuni di noi lo conoscono e lo seguono con piacere quando viene in Italia.

La prima domanda parte dall’osservazione di quanto la sua metodologia analitica si sposi perfettamente con la psicologia degli europei, risultando così estremamente chiara e fruibile dalla maggior parte degli allievi.

La risposta è molto interessante:

“Ero un judoka curioso e volenteroso, ma non ho mai desiderato diventare un campione. In palestra c’erano judoisti più forti di me e siccome quando c’è un problema bisogna trovare una soluzione, spesso chiedevo ai miei insegnanti spiegazioni sulla tecnica e sulla didattica. Quando venni in Europa mi accorsi che i bambini non erano poi così differenti da quelli giapponesi. Il mio maestro diceva che se hai una classe di 10 ragazzi e solo 2 capiscono, allora c’è qualcosa che non va, forse devi cambiare modo di parlare e spiegare. Se per esempio spiego che mae mawari sabaki significa girarsi e i ragazzi non capiscono, allora gli dico di guardare un muro e poi il muro dal lato opposto. Se spiego hikite non basta dire di tirare in alto ma è consigliabile far loro girare la testa per rivolgere lo sguardo verso la direzione dello squilibrio. Bisogna sempre cambiare le parole per adattarsi meglio ai judoisti che si hanno davanti. In più c’è un grande lavoro per cercare di rendere la tecnica facile e comprensibile”. (Attenzione facile e semplice non sono sinonimi, anzi non è affatto semplice rendere una cosa facile, c’è bisogno di molto studio e di uno smontaggio della tecnica in pezzetti facilmente ripetibili).

Gli cito una considerazione che gli ho sentito fare durante una lezione e che mi ha molto colpito. Diceva il maestro Katanishi che nella vita normale le persone quando fanno delle cose spesso usano con intelligenza il corpo e riescono a capire come ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo, ma nel contesto judoistico questo spesso non accade e ci si ostina a fare sforzi irragionevoli. Il maestro sorride e annuisce.

Dice:

“l’uomo è pigro per natura, tende a trovare sempre il modo più economico per fare meno fatica possibile, una volta scoperto però si accontenta di ciò che ha trovato senza chiedersi se ci sono sistemi ancora più funzionali. In quel momento bisogna intervenire e spronarlo perché cerchi ancora nuovi e migliori accorgimenti. A volte invece è importante continuare a fargli fare quello di buono che stanno compiendo, soprattutto con i ragazzi, perché altrimenti si scoraggiano. Mai spiegare tutto e subito perché altrimenti si arriva ad un punto di saturazione perché in testa è tutto chiaro ma il corpo non riesce a stare dietro e si scompone tutto. Prendiamo per esempio i lavori manuali, se sono un artigiano e ho capito come fare un vaso non è detto che lo sappia fare, bisogna che il corpo impari piano piano. Il problema di una persona è il problema di tutte le persone, tutti abbiamo due gambe, due braccia, due orecchie, due occhi, i problemi che uno trova nello studio di una tecnica sono i problemi di tutti quanti, è importante che io faccia riconoscere gli aspetti più complicati perché gli allievi cerchino di superarli...e non domani, tra una settimana o un mese, ma da subito. E’ per questo che è importante parlare con il maestro e fare mondō con lui”. Mondō è uno dei quattro pilastri della metodologia di Kano Shihan: Mondō (domanda e risposta), koji (conferenza...allenamento intellettuale), kata (forma...codice), randori (controllare il disordine... libero adattamento).


La domanda successiva verte sul fatto che nelle palestre in genere ci siano pochi ragazzi dai 15 ai 25 anni.

Il maestro Katanishi risponde che l’insegnamento e la comunicazione devono adattarsi all’età degli allievi, quando si insegna ai bambini il judo deve essere si attrattivo ma bisogna obbligarli a seguire. Sin da bambini bisogna insegnare loro la disciplina ed il rispetto e soprattutto che sono lì per gli altri e non gli altri per loro; è questo che crea un legame di gruppo e fa diventare la palestra una famiglia. Soprattutto i giovani hanno bisogno di vedere nel gruppo di palestra un ambiente accogliente e familiare, questo è la cosa più importante, ancora più della qualità tecnica, costruire un ambiente sano dove c’è un forte legame di gruppo, dove loro sono felici di arrivare così che essi possano essere aiutati nella crescita, soprattutto in quei casi in cui la famiglia, o per il troppo lavoro o per altre situazione, è un po’ assente. Quando si arriva al judo adulto si scopre che esso non è più difficile ma è sicuramente più complesso.

“Quanto è cambiata, con il passare del tempo, la sua visione del judo?” qualcuno domanda.

Il maestro Hiroshi non esita e risponde:

“Non è cambiata la mia visione del judo, ma non nego che il judo sia cambiato soprattutto perché è cambiato il regolamento arbitrale negli ultimi anni. Pensiamo solo alla valutazione dell’ippon, oggi è radicalmente diversa. Il paradosso è che si fanno le gare sportive e gare di kata (che è la base del judo) in cui il campione sportivo e quello di kata non condividono lo stesso concetto di lancio o proiezione (se nel nage no kata devo proiettare il mio compagno solo in un certo modo, nella gara sportiva posso farlo anche solo rotolare). Il presupposto del judo di Kano è che chi combatte accetti la caduta ma questo spesso non avviene e se gli atleti evoluti sono in grado con la loro preparazione di reggere fisicamente, ciò non è sempre vero per quelli più giovani; dovremmo essere più attenti a non esporli nell'età della crescita a troppi stress ed essere più attenti alla loro incolumità. Il judo di Jigoro Kano è un judo educativo oltre che sportivo ma sembra importante solo il secondo aspetto. Si dice che Kano lavorò intensamente per fare entrare il judo alle Olimpiadi, verissimo ma, io penso, che fece ciò per diffondere attraverso le Olimpiadi il metodo educativo, non solo quello competitivo”.


La chiacchierata va ancora avanti in modo amabile e in assoluta spontaneità, ogni tanto una battuta e una risata mostrano che un’ intesa si è creata.

Il Maestro dice:

“se da una parte ci sono molti ragazzi che hanno mille interessi differenti e la loro disponibilità nei confronti del judo è molto limitata (è giusto che che possano fare judo due volte alla settimana senza nessun obbligo) dall’altra ci sono adolescenti che sentono il sacro fuoco per le gare di judo e dobbiamo costruire strutture capaci di farli crescere sia sul piano scolastico che in quello competitivo.


Il Maestro (ora si scivola su un piano ideale) parla di scuole sportive statali che abbiano il judo all’interno della struttura e dei programmi scolastici, che vivano buone relazioni con i club di provenienza dei ragazzi e un avviamento lavorativo quando gli atleti termineranno l’attività agonistica. “Mi sembra un sogno irrealizzabile, anche se anche in Italia alcuni centri fanno un judo competitivo di ottima qualità e si trovano ad avere un gran numero di ragazzi di alto livello, ebbene tutto questo è sulle spalle delle famiglie e di insegnanti che rischiano tempo e investimenti senza mai un aiuto dal pubblico o da enti designati dallo Stato”.


L’ora volge a mezzanotte quando, ringraziando, ci congediamo dal Maestro, “...a presto sul tatami!” è il nostro augurio spontaneo, ma non nascondo che dirlo, ci riserva molte preoccupazioni…

One gaeshi masu, Katanishi Sensei


Post scriptum:

Le frasi tra parentisi non sono state dette dal Maestro ma scritte per integrare le spiegazioni, spero con questo di non aver travisato o mal compreso le sue parole. Nel caso ciò accadesse chiedo perdono anticipatamente.

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